The Last Of Us Parte 2, una piccola analisi

Dopo aver finito di giocare a The Last Of Us 2 e sebbene ne abbiano parlato persone ben più titolate e in gamba di noi, abbiamo deciso di mettere nero su bianco alcuni dei pensieri che ci hanno generato questa esperienza incredibile.

Dato che è impossibile parlarne senza spoiler, metteremo in mezzo una bella immagine a separazione: chi non ci ha ancora giocato e intende farlo si fermi qui. Gli altri proseguano pure.

Se The Last Of Us – l’originale – parlava sostanzialmente di amore e speranza, The Last Of Us Parte 2 parla dell’odio che è in ognuno di noi e ce lo racconta secondo vari punti di vista.

Inizialmente ci fa capire quanto è facile giustificare l’odio, quant’è facile comprenderlo quando si guarda la storia da un solo punto di vista, quando qualcuno prende e ti toglie la cosa più preziosa che hai e lo fa davanti ai tuoi occhi nel modo più cruento immaginabile.

In questo caso percepiamo l’odio come normale, come giustificato, quasi come dovuto.

Lo facciamo nostro.

E quindi durante tutta la prima parte, quando seguiamo (anzi, guidiamo) Ellie nella sua ricerca di vendetta, la capiamo, vogliamo anche noi quella vendetta, vogliamo farla pagare a chi si è macchiato di quella terribile colpa.

E lo vogliamo anche quando attacca persone quasi gratuitamente, lo vogliamo anche quando – nonostante possa disturbarci (personalmente, è Sergio che scrive, mi ha dato non pochi problemi) – uccidiamo dei cani con la scusa che sono loro ad attaccarci, che è o loro o noi; uccidere i cani ci sembra giustificato, l’uccisione del nostro cavallo ci appare di nuovo come un crimine orribile e chi ci assalta sono per forza di cose persone cruente, che meritano la morte per mano di Ellie.

Solo quando c’è l’attacco a Nora iniziamo a storcere il naso, a renderci conto di quanto in fondo al pozzo stiamo scendendo. E gli autori lo sanno, perché ci costringono a dare ognuno di quei singoli colpi e sebbene noi, come giocatori, vorremmo dire “no, basta”, vorremmo poter avere una scelta, vorremmo poter cambiare la storia come in Detroit: Become Human, qui non possiamo: qui possiamo solo accompagnare ciò che succede, possiamo esclusivamente assistere alle azioni di Ellie facendogliele compiere; ogni gesto di Ellie è nostro e lo è perché l’abbiamo accompagnata lungo quella discesa da cui non è possibile risalire. Non in quel momento. Forse mai.

Ciononostante andiamo avanti in questa discesa. Andiamo avanti nella caccia. E nel momento in cui la rabbia di Ellie supera qualunque forma di accettabilità, nel momento in cui per mano sua muoiono due persone che in fondo sono innocenti, senza contare che una delle due è incinta, nel momento in cui tornano due persone che la fanno rinsavire, ecco che ci troviamo di fronte all’orrore delle azioni di Ellie. E lei con noi.

Ed è qui che veniamo catapultati a rivivere, nel secondo atto, tutto quanto già visto, ma dal punto di vista opposto, quello di Abby.

E pian piano impariamo a capire Abby. Certo, qualche aspetto poteva essere intuito nel primo dipanarsi della storia, ma nonostante questo impariamo a capirla man mano che procediamo nel suo atto e ogni scelta fatta come Ellie comincia a ritorcercisi contro.

Il nome di ogni cane ci viene sbattuto in faccia. Li abbiamo uccisi prima, ora li coccoliamo come cuccioloni docili nel passato recente, con un senso di colpa che si carica sulle nostre spalle. Interagire con Nora e Lea è un’ulteriore senso di colpa che si accumula. A noi, sia chiaro, perché a Ellie non si accollerà mai: Ellie non saprà mai chi erano le persone (e i cani) che ha ucciso, sempre che le interessi. Noi sì. Ellie non vivrà mai quel senso di colpa, noi sì. Perché noi ora le vediamo come individui e non come ostacoli bidimensionali.

Noi finiamo per renderci conto che tutto ciò che abbiamo fatto e che ritenevamo essere giusto ha tolto la vita a persone che avevano esattamente lo stesso diritto di vivere e le stesse sfumature di grigio che abbiamo sempre concesso a Joel prima e a Ellie poi.

È così che iniziamo ad affezionarci a Abby. A seguirla. A capirla. E sebbene, in tutto questo, l’unica persona con cui si fa davvero fatica a empatizzare è forse suo padre – perché sì, vuole fare qualcosa di grande, ma è disposto a uccidere una ragazzina per farlo – ecco che finiamo per percepire la natura di Abby, che è in realtà una natura gentile.

È la natura di una ragazza che ha dovuto sopportare la perdita del padre in una maniera cruenta e assurda, che ha dovuto assistere alla caduta del gruppo che le aveva dato speranza e riciclarsi come membro di un esercito paramilitare sulla soglia del fanatismo: Isaac è un fanatico, poco diverso dai Serafiti, e conduce i suoi al disastro.

Abby ci si trova dentro, ma lei ha una coscienza: dopo che ha ucciso Joel per vendetta (e nonostante questa azione le abbia lasciato una ferita nell’anima), è un personaggio positivo. Torna indietro a costo della sua stessa vita per salvare due Serafiti che l’hanno salvata e rischia tutto per Lev e Yara: il momento più spaventoso, col mostro più spaventoso, lo affronta lei proprio mentre sta cercando di recuperare ciò che serve per salvare la vita a Yara.

Sempre Abby si mette nei casini per Lev quando in qualunque momento avrebbe potuto pararsi le chiappe, semplicemente perché non sarebbe stato giusto. Abby, se mettiamo da parte l’uccisione di Joel, è l’unico personaggio principale che si chiede costantemente se qualcosa sia giusto: nello stesso rapporto con Owen finisce per cedere e poi rimproverarsi per averlo fatto.

Così arriviamo al ricongiungimento della storia tra Ellie ed Abby e non lo viviamo nel ruolo della prima, ma restiamo in quello di Abby. È con lei che combattiamo e la rabbia di Ellie in quel momento, il modo in cui la percepiamo, sono assolutamente identici al modo in cui abbiamo percepito tutti i nemici sia nel gioco precedente che in questo. Tutti, nessuno escluso. Il suo “non uscirai viva da qui”, il suo “sei già morta”, sono volutamente indistinguibili da quelli dei Lupi e dei Serafiti e di Abby stessa a ruoli scambiati, perché in fondo Ellie ed Abby sono uguali.

Ciò che le spinge è la stessa cosa. La differenza è soltanto una: che stavolta, quando Ellie prega Abby di non uccidere Dina, che non c’entra ed è incinta, Abby rischia di cadere nel suo stesso pozzo e viene salvata da Lev. Abby fa pace con tutto ciò che è accaduto, nonostante le azioni di Ellie: ricordiamoci che Abby ha ucciso una persona fondamentale per Ellie, ma Ellie ha ucciso tutte le persone care di Abby; Abby ha mantenuto una morale che Ellie ha gettato nel cesso.

E quando arriviamo a quella che pensiamo essere la fine, quella che dovrebbe essere la fine se il gioco avesse voluto seguire strade facili, ci viene data una finta consolazione, il paradiso sognato da Dina e che Ellie in qualche modo fa suo; ma The Last Of Us non è il paradiso, non cerca scelte facili, The Last Of Us ci mostra la vita e questa seconda parte vuole a tutti i costi ricordarci cos’è la vita.

Lo fa mostrandoci che il rapporto tra Joel ed Ellie non si è mai sistemato del tutto: noi ci eravamo illusi che in qualche modo la vita sarebbe stata giusta o quanto meno discreta o in pace dopo la fine del primo gioco, ma tutta la storia si fonda sul fatto che non sia andata così, che siano stati costruiti muri nel rapporto tra i due che sono il vero rimpianto e la vera rabbia di Ellie, non la morte di Joel, nonostante questa rappresenti il trauma.

In quel momento, quando vediamo Ellie in un attimo di pace, il gioco e gli autori ci vengono a dire che la pace non è così facile da ottenere e non è detto che si possa raggiungere. E infatti Ellie viene perseguitata in parte dal trauma e dall’altra da quel Tommy che già inizialmente aveva alimentato lo stesso desiderio della ragazza, ma che alla fine diventa un ennesimo fanatico che scarica su di lei la propria frustrazione e voglia – di nuovo – di vendetta.

E a questo punto Ellie compie l’ennesimo errore: decide che vuole far suo quell’odio, che vuole farsi spingere e vuole alimentarlo facendosene consumare. Così, mentre nei mesi dal loro scontro Abby ha cercato di ricostruire una nuova appartenenza insieme alla persona che – l’aveva detto – era la sua gente (quel Lev che l’aveva già salvata due volte, una fisicamente e una emotivamente), mentre agisce per costruire una nuova speranza basata sul sogno che prima era di Owen e ora ha fatto suo, Ellie decide invece di volersi lasciare consumare e spingere da quell’odio, che la alimenta ma la divora da dentro, al punto che quando giunge allo scontro finale con Abby è ormai un relitto ed è pronta a morire ciecamente.

In quel momento a Ellie non interessa nulla, esiste solo la morte di Abby per lei: è terribile l’istante in cui Abby non vuole lottare – e, ribadiamolo, ne avrebbe tutti i motivi, ancora più di Ellie, ma lei ha fatto pace col passato – ed Ellie minaccia Lev dicendo, testualmente, “lui c’entra per colpa tua”. Una colpa di Abby contro decine di Ellie, ma Ellie continua a sentirsi giustificata perché nessuno è il villain della propria storia.

È soltanto quando finalmente si trova davanti alla possibilità di uccidere davvero Abby che l’immagine di Joel morente viene sostituita da quella dell’uomo l’ultima sera prima che venisse ucciso, quella che davvero ha perseguitato Ellie, che realmente ha alimentato la sua rabbia; peccato che quella rabbia non sia verso Abby, bensì verso se stessa.

È a quel punto che lascia andare la sua “nemica”, che Abby e Lev spariscono e, speriamo, raggiungono le Luci.

A Ellie non resta nulla. Perde due dita. Perde la donna che amava. Perde il figlio adottivo. Perde la capacità di suonare a dovere la chitarra, ultima eredità di Joel. Perde se stessa. E tutto a causa dell’odio che l’ha divorata.

Abby ne è uscita e probabilmente ne risulterà migliore, qualunque cosa possa significare . Ellie forse non ne uscirà mai del tutto.

E se già una storia del genere racconterebbe la vita e l’odio in modo perfetto, attraversarla come giocatori fa sì che non si assista a una vicenda raccontata, ma la si viva in prima persona. Anche se non scegliamo siamo noi ad agire, siamo noi a provare paura, rabbia, voglia di vendetta.

Ed è così che ci può venire raccontato l’odio più comune, quello presente in ognuno di noi e ci viene ricordato di come sia importante immedesimarsi nei panni di chiunque prima di farci accecare e divorare.

Ed è per questo che, pur da non addetti ai lavori, possiamo capire chi dice che The Last Of Us Parte 2 è uno dei migliori giochi mai prodotti.

Nota: vi ricordiamo che potete ascoltare il nostro speciale dedicato a The Last Of Us qui.


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